Il film racconta di Sam e Jonathan, due venditori ambulanti di travestimenti e scherzi di carnevale, squattrinati, che da anni girano inutilmente la città con una valigia per piazzare i soliti articoli: la dentiera finta con i canini da vampiro, un sacchetto di risate (sinistre, da horror) e la maschera di Zio Dentone. Oggetti per far ridere la gente, anche se non ride mai nessuno. Gli affari vanno male, litigano per questo e, per una volta che riescono a vendere qualcosa, il titolare del negozio, steso su un divano nella depressione più totale, urla loro che non ha i soldi per pagare. La coppia vive in un residence di pessima categoria, dove l’unico contatto umano è con il gestore che brontola per la musica alta. Nel corridoio non si vede nessuno, le porte sono chiuse, la prospettiva è desolante, peggiore di in una corsia d’ospedale.
Il residence, anche questo bianco e lattiginoso, non restituisce un minimo senso di presenza, di condivisione. Funziona come tutte le cose in Svezia: è pulito, ogni ospite ha una camera, secondo il modello del welfare nordico che è inappuntabilmente efficiente. Ma manca un senso di calore umano: non esistono affetti, non ci sono relazioni – se non una coppia di giovani che si scambia glaciali effusioni su quella che sembra una spiaggia (non si vede neppure il mare) e dove l’unica altra presenza è quella di un cane –, non c’è un senso di famiglia. Nessuno è abbandonato al suo destino, perché l’assistenza sociale pensa, seppure in modo statale e impersonale, a tutti. Ma il povero Jonathan, per fare un esempio, sogna di morire: lo confida all’amico e ha paura di andare in paradiso per il rischio di ritrovare i genitori, come canta una stanca cantilena svedese che ascolta su un vecchio 45 giri, perché anche il rapporto con padre e madre è stato freddo e senza vita.
La metafora del piccione che osserva le nostre vite dall’alto serve a Andersson per avere uno sguardo il più distaccato possibile da una serie di eventi, raccontatati in 39 scene, che in qualche modo hanno toccato anche la sua vita, nel dolore di un fratello tossicodipendente: «Semplicemente assomigliano ai miei sogni e ai miei incubi, senza ulteriori spiegazioni, solo con l’uso di simbolismi e raffigurazioni surreali dell’esistenza amara e spassosa di tutti i giorni, che preferisco a un racconto banalmente realistico. Questo film è anche più ironico rispetto ai miei ultimi due, e il tono preponderante è quello dell’umorismo nero, anche se i personaggi sono tristi e soffrono molto». La scelta di due venditori rappresenta quanto di più comune ci tocchi nella banalità della quotidianità: «Essere un venditore è così universale», spiega Andersson, «è quasi un sinonimo della vita. La vendita e la pubblicità, si potrebbe dire, sono i fondamenti di una società civilizzata. Io stesso sono un venditore e tutti noi lo siamo. Dobbiamo promuovere noi stessi e comunicare tramite le nostre cose e le nostre idee».
La copia protagonista ricorda un po’, nella letteratura, le dinamiche psicologiche di Don Chisciotte e Sancho Panza, e nel cinema le avventure rocambolesche (anche qui dolci e amare) di Stanlio e Ollio. Forse si potrebbe cercare anche un parallelo nella desolazione di un Fantozzi, anche se il geniale personaggio inventato da Paolo Villaggio sprizza di vita, di socialità, di burrascose avventure con i compagni di lavoro. Invece qui, nel film di Andersson, i due amici di strada si muovono dolenti in un universo sociale di totale mancanza di comprensione ed empatia. Sam è il più forte dei due, un po’ tronfio, spesso irrispettoso e inutilmente caustico nei confronti del compagno, salvo poi provare uno schietto senso di colpa e chiedere perdono; Jonathan è più sensibile ai travagli della vita: non è certo un tipo brillante, tende alla malinconia, piange per un nonnulla. Loro due sono al centro della storia, testimoni (spesso muti) delle esperienze degli altri personaggi. Intorno si svolgono altre vicende umane, colte sul palcoscenico di un teatro dell’assurdo, esilaranti ma senza speranza, che accompagnano lo spettatore in un viaggio nel destino degli uomini. Un destino frutto dell’esperienza dell’uomo Andersson, un destino ”svedese”, scandinavo, che poco ha a che fare con noi, ed è molto peggiore anche delle nostre più sfortunate esperienze di dolore, nelle quali, grazie al modello “latino” della famiglia, troviamo invece più facilmente empatia e relazioni rassicuranti: «In una delle scene del mio film», osserva il regista, «un anziano si pente del comportamento crudele e avaro che ha mantenuto in tutta la sua vita: “È per questo che sono stato così infelice”, dichiara a un cameriere. Ma le parole non bastano a creare una comprensione completa e una comunicazione totale ».
Il film mette in luce singoli momenti, in una sequenza di episodi, con i primi tre davvero spassosi nonostante il terribile cinismo latente: a volte prevale la meschinità, altre l’ironia glaciale, altre ancora la solitudine di accendere il cellulare e non trovare neppure un messaggio in segreteria, mentre da un ristorante, triste anch’esso, arrivano le risate di personaggi anonimi, dipinti come clown di un circo senza spettatori. Un motivetto di ballata svedese (fredda pure la musica) fa da colonna sonora ai vari quadri: una ballata stanca che non regala un barlume di lievità alle scene e, anzi, ne sottolinea la pesantezza. Le persone appaiono in vetrina nella loro lancinante vacuità, come sulle tele di Edward Hopper, che ha rappresentato la solitudine della società americana contemporanea.
E’ evidente che l’autore intende scavare nell’intimo dell’essere umano e della sua sconfinata aridità: «Un problema diffuso, di una società sempre meno solidale», ha commentato Andersson ricevendo il Leone d’oro a Venezia. «Oggigiorno siamo spinti a pensare soltanto a noi stessi, ad aumentare il nostro guadagno approfittando degli altri. Non oso pensare alle conseguenze terribili di questo comportamento. E’ un disastro, un’alienazione che farà perdere qualunque fiducia ai giovani. Odio l’umiliazione, vedere altre persone umiliate ed essere umiliato io stesso. In un certo senso, tutti i miei film trattano di umiliazione». La risposta a questa sofferenza, lo ripetiamo, nel nostro modello di società è per fortuna un poco più morbida e accogliente.
Il dolore e la cultura
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Parole chiave:
Cinema
- Depressione
- Povertà
- Relazioni umane
- Solitudine
- Tristezza